lunedì 10 dicembre 2012

Nella Nebbia, Mary Shelley


 Incontro Mary al crepuscolo, in un quartiere londinese di periferia. È una giornata uggiosa e l’aria è gelida. Mary ha il viso scavato, l’espressione di chi ha vissuto la sua vita affrontando dolori e turbolenze. Abbozza un sorriso e mi dice di seguirla in un posto più tranquillo, per poter parlare in pace. Entriamo in una chiesa e ci sediamo all’ultimo banco. Mary sospira e mi chiede: “Cosa vuole che le racconti, Violet?” “Tutto,” le dico senza esitazione. Voglio sapere tutto su di lei. 
Mary sorride e rivolge il suo sguardo verso il pulpito. Poi, prende fiato e comincia a raccontare: “Sono nata in questa città, Londra, il 30 agosto 1797. Mio padre era il noto filosofo William Godwin, un esponente del razionalismo anarchico, mentre mia madre era Mary Wollstonecraft, una donna forte e determinata. Fu una delle prime a promuovere la questione dei diritti della donna. Purtroppo, questa madre così eccezionale, volitiva, sensibile e grandiosa, io non l’ho mai conosciuta. Avrei potuto imparare tante cose da lei.” Mary sospira e poi continua: “Ma nella vita raramente facciamo ciò che vogliamo. Raramente, già, troppo raramente. Mia madre morì poco dopo il parto. Nel 1821, mio padre si risposò con Mrs. Clairmont, anche lei vedova. Era una sua conoscente ed era madre di due figli.”
“E Percy Bysshe Shelley?” le chiedo curiosa di conoscere una delle storie d’amore più romantiche dell’epoca.
Mary si illumina e il suo sguardo si posa involontariamente sulla bifora della chiesetta gotica in cui siamo entrate. La luce che penetra attraverso le vetrate dipinge di tutti i colori il pavimento. “L’ho incontrato durante un soggiorno in Scozia,” esclama Mary commossa. “Era bellissimo, uno di quei giovani geniali… un poeta ribelle. Lo sposai nel 1816, avevo diciannove anni. Mio padre non era contento della nostra unione, Percy era sposato, ma dopo una rocambolesca fuga in Svizzera, riuscimmo a vivere assieme, come avevamo voluto. Ci era bastato guardarci negli occhi per capire di appartenere l’uno all’altra, senza alcuna riserva. Nessuno può opporsi a ciò che è destino che accada, dicevano i poeti latini. È vero.”
“Shelley però portava con sé una tragedia, vero?” le domando.
“Sì, la sua prima moglie, Harriet Westbrook, era morta suicida. Percy aveva poi rotto ogni rapporto con il padre. Viaggiammo moltissimo: Francia, Germania, Olanda e Italia. Ah, l’Italia. La culla dell’arte. Non potevamo non amarla. La amo ancora nonostante tutto. Nel 1822, dopo esserci trasferiti a La Spezia, Percy e il marito di una nostra amica, partirono alla volta di Genova per non tornare mai più. Il suo corpo fu rinvenuto tra i flutti il 15 luglio. Tornata a Londra dopo la morte di Percy, ho vissuto in Inghilterra con i proventi del mio lavoro di scrittrice professionista.”
“Autrice di vari romanzi,” la interrompo. “Diventerà famosa soprattutto per Frankenstein o il Prometeo moderno, il suo primo libro scritto nel 1818.”
“Esatto. Frankenstein è nato quasi per gioco, com’è noto. Fu di Lord Byron, l’idea. Durante un soggiorno estivo a Ginevra con Percy, Polidori e me, Byron suggerì che ciascuno di noi scrivesse un racconto dell'orrore, che poi ognuno di noi avrebbe letto agli altri come passatempo serale. Percy compose un'opera breve intitolata The Assassins, Byron scrisse il racconto The Burial, mentre Polidori creò la figura di un vampiro affascinante e misterioso, con il romanzo breve The Vampire. Tutti noi partecipanti a quella notte a Villa Diodati abbiamo avuto una tragica fine. Il mio Percy morì annegato. Lord Byron morì giovanissimo a Missolungi in Grecia, Polidori si suicidò... Mentre io, sono morta qui a Londra il 1 febbraio 1851, dopo aver condotto una vecchiaia piuttosto serena in compagnia dell'unico figlio rimastomi. L’unica mia vera ragione di vita dopo la morte di Percy e degli altri nostri figli.”
“La serenità degli ultimi anni è dovuta anche la sua arte. Durante quelle fatidiche notti ginevrine lei scrisse un capolavoro: Frankenstein,” ribatto ammirata.
“Già, Frankenstein è nato in seguito a un terribile incubo. Il soggetto è chiaramente ispirato al mito dell'uomo creatore della vita, ma anche alle Metamorfosi di Ovidio, un autore che io amo particolarmente, e al Paradiso Perduto di Milton. Ma in Frankenstein al prodigio si sostituiscono chimica e galvanismo. Frankenstein è la storia di un giovane studioso svizzero, il dottor Frankenstein, specializzato in filosofia naturale. Servendosi di parti anatomiche sottratte ad alcuni cadaveri, il dottore mette insieme i pazzi per arrivare a formare una creatura mostruosa. Ci riesce solo con un procedimento segreto con il quale infonde la scintilla della vita. Malgrado l'aspetto terrificante, la Creatura è docile e buona, ha il cuore mite e l’animo dolce. Tuttavia si accorge del disgusto e della paura che suscita negli altri e, sebbene la sua natura sia incline alla bontà, per il trauma della scoperta, la Creatura si trasforma e diventa una furia distruttiva. Spaventa, depreda e finisce per uccidere persino il suo creatore.”
“Questo suo primo romanzo ha goduto di una fama e di una fortuna costanti. È stato oggetto di innumerevoli imitazioni, cosa ne pesa al riguardo?”
“La fortuna di Frankenstein può essere dovuta, immagino, alle molte questioni etico-filosofiche che una sua lettura attenta fa sorgere. Fra le tante questioni, c’è quella relativa alla origini della vita, al ruolo a dir poco ambiguo della scienza, troppo spesso inconsapevole creatrice di mostri. Non ultima la questione rousseauiana della bontà e creatività originaria dell'uomo, in seguito corrotto dalla società.”
Mary è stanca. Si alza e mi fa cenno di uscire dalla chiesa. “Devo ritornare da Percy,” mi dice inoltrandosi nella nebbia. Cerco di seguire la sua immagine, ma tutto ciò che rimane di lei svanisce. Resta solo il ricordo di una donna forte che per qualche ora ci ha concesso di udire la sua voce.

©Violet Blunt

Nessun commento:

Posta un commento