Incontro
Mary al crepuscolo, in un quartiere londinese di periferia. È una giornata
uggiosa e l’aria è gelida. Mary ha il viso scavato, l’espressione di chi ha
vissuto la sua vita affrontando dolori e turbolenze. Abbozza un sorriso e mi
dice di seguirla in un posto più tranquillo, per poter parlare in pace.
Entriamo in una chiesa e ci sediamo all’ultimo banco. Mary sospira e mi chiede:
“Cosa vuole che le racconti, Violet?” “Tutto,” le dico senza esitazione. Voglio
sapere tutto su di lei.
Mary sorride
e rivolge il suo sguardo verso il pulpito. Poi, prende fiato e comincia a
raccontare: “Sono nata
in questa città, Londra, il 30 agosto 1797. Mio padre era il noto filosofo
William Godwin, un esponente del razionalismo anarchico, mentre mia madre era
Mary Wollstonecraft, una donna forte e determinata. Fu una delle prime a
promuovere la questione dei diritti della donna. Purtroppo, questa madre così
eccezionale, volitiva, sensibile e grandiosa, io non l’ho mai conosciuta. Avrei
potuto imparare tante cose da lei.” Mary sospira
e poi continua: “Ma nella vita raramente facciamo ciò che vogliamo. Raramente,
già, troppo raramente. Mia madre morì poco dopo il parto. Nel 1821, mio padre si
risposò con Mrs. Clairmont, anche lei vedova. Era una sua conoscente ed era
madre di due figli.”
“E Percy Bysshe Shelley?” le chiedo curiosa di conoscere una delle storie d’amore più romantiche dell’epoca.
“E Percy Bysshe Shelley?” le chiedo curiosa di conoscere una delle storie d’amore più romantiche dell’epoca.
Mary si
illumina e il suo sguardo si posa involontariamente sulla bifora della
chiesetta gotica in cui siamo entrate. La luce che penetra attraverso le
vetrate dipinge di tutti i colori il pavimento. “L’ho
incontrato durante un soggiorno in Scozia,” esclama Mary commossa. “Era
bellissimo, uno di quei giovani geniali… un poeta ribelle. Lo sposai nel 1816, avevo
diciannove anni. Mio padre non era contento della nostra unione, Percy era
sposato, ma dopo una rocambolesca fuga in Svizzera, riuscimmo a vivere assieme,
come avevamo voluto. Ci era bastato guardarci negli occhi per capire di
appartenere l’uno all’altra, senza alcuna riserva. Nessuno può opporsi a ciò
che è destino che accada, dicevano i poeti latini. È vero.”
“Shelley
però portava con sé una tragedia, vero?” le domando.
“Sì, la sua
prima moglie, Harriet Westbrook, era morta suicida. Percy aveva poi rotto ogni
rapporto con il padre. Viaggiammo moltissimo: Francia, Germania, Olanda e
Italia. Ah, l’Italia. La culla dell’arte. Non potevamo non amarla. La amo
ancora nonostante tutto. Nel 1822, dopo esserci trasferiti a La Spezia, Percy e
il marito di una nostra amica, partirono alla volta di Genova per non tornare
mai più. Il suo corpo fu rinvenuto tra i flutti il 15 luglio. Tornata a Londra
dopo la morte di Percy, ho vissuto in Inghilterra con i proventi del mio lavoro
di scrittrice professionista.”
“Autrice di
vari romanzi,” la interrompo. “Diventerà famosa soprattutto per Frankenstein o il Prometeo moderno, il
suo primo libro scritto nel 1818.”
“Esatto.
Frankenstein è nato quasi per gioco, com’è noto. Fu di Lord Byron, l’idea. Durante
un soggiorno estivo a Ginevra con Percy, Polidori e me, Byron suggerì che
ciascuno di noi scrivesse un racconto dell'orrore, che poi ognuno di noi avrebbe
letto agli altri come passatempo serale. Percy compose un'opera breve
intitolata The Assassins, Byron scrisse
il racconto The Burial, mentre
Polidori creò la figura di un vampiro affascinante e misterioso, con il romanzo
breve The Vampire. Tutti noi
partecipanti a quella notte a Villa Diodati abbiamo avuto una tragica fine. Il
mio Percy morì annegato. Lord Byron morì giovanissimo a Missolungi in Grecia,
Polidori si suicidò... Mentre io, sono morta qui a Londra il 1 febbraio 1851,
dopo aver condotto una vecchiaia piuttosto serena in compagnia dell'unico
figlio rimastomi. L’unica mia vera ragione di vita dopo la morte di Percy e
degli altri nostri figli.”
“La serenità
degli ultimi anni è dovuta anche la sua arte. Durante quelle fatidiche notti
ginevrine lei scrisse un capolavoro: Frankenstein,” ribatto ammirata.
“Già,
Frankenstein è nato in seguito a un terribile incubo. Il soggetto è chiaramente
ispirato al mito dell'uomo creatore della vita, ma anche alle Metamorfosi di Ovidio, un autore che io
amo particolarmente, e al Paradiso
Perduto di Milton. Ma in Frankenstein al prodigio si sostituiscono chimica
e galvanismo. Frankenstein è la storia di un giovane studioso svizzero, il
dottor Frankenstein, specializzato in filosofia naturale. Servendosi di parti
anatomiche sottratte ad alcuni cadaveri, il dottore mette insieme i pazzi per
arrivare a formare una creatura mostruosa. Ci riesce solo con un procedimento
segreto con il quale infonde la scintilla della vita. Malgrado l'aspetto
terrificante, la Creatura è docile e buona, ha il cuore mite e l’animo dolce.
Tuttavia si accorge del disgusto e della paura che suscita negli altri e,
sebbene la sua natura sia incline alla bontà, per il trauma della scoperta, la
Creatura si trasforma e diventa una furia distruttiva. Spaventa, depreda e
finisce per uccidere persino il suo creatore.”
“Questo suo
primo romanzo ha goduto di una fama e di una fortuna costanti. È stato oggetto
di innumerevoli imitazioni, cosa ne pesa al riguardo?”
“La fortuna
di Frankenstein può essere dovuta, immagino, alle molte questioni
etico-filosofiche che una sua lettura attenta fa sorgere. Fra le tante
questioni, c’è quella relativa alla origini della vita, al ruolo a dir poco ambiguo
della scienza, troppo spesso inconsapevole creatrice di mostri. Non ultima la questione rousseauiana della bontà e
creatività originaria dell'uomo, in seguito corrotto dalla società.”
Mary è
stanca. Si alza e mi fa cenno di uscire dalla chiesa. “Devo ritornare da
Percy,” mi dice inoltrandosi nella nebbia. Cerco di seguire la sua immagine, ma
tutto ciò che rimane di lei svanisce. Resta solo il ricordo di una donna forte
che per qualche ora ci ha concesso di udire la sua voce.
©Violet
Blunt